Carabinieri a Reggio Calabria
L’alluvione di africo
Il risultato è che si è distrutta una economia montana
sia pure povera e primitiva,
senza che ne sia stata creata alcun’altra.
Le precarie condizioni di vita dei paesi più poveri della provincia di Reggio Calabria erano talvolta aggravate da devastanti calamità naturali, tra cui l’alluvione avvenuta in Calabria nel 1951 che coinvolse 68 comuni; a seguito di tale disastroso evento si registrarono ben 3.090 abitazioni distrutte o pericolanti e 3.797 famiglie sfrattate e ricoverate temporaneamente in alloggi di fortuna, per un totale di 16.161 persone[i].
D’interesse le implicazioni che si ebbero nel comune di Africo nel 1951 che, a causa dell’alluvione, fu trasferito in altra zona.
Come riportato nella relazione del Commissario Prefettizio diretta al Ministero dell’Interno:
Tra le giogaie dell’Aspromonte e proprio a mezza costa del versante sud di Montalto a 700 metri di altitudine, dimenticato dagli uomini, in uno strapiombo impressionante sorgeva Africo su terreno di natura friabilissima, circondato alla base dai torrenti Aposcipo e Poro in azione di corrosione continua della montagna e sensibilissima pendenza. Nessuna opera di consolidamento venne mai conseguita, mai alcuna opera di convogliamento di acque, nessun arginamento della furia travolgente delle acque dei torrenti; nel passato ai bisogni vivamente rappresentati rispondeva solo l’eco delle valli, muta nell’abbandono e nella squallida e misera vita del montanaro, in tuguri, esposta a tutte le intemperie furiose della selvaggia montagna.
Solamente l’Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia allungò il suo sguardo sulla miseria del paese, e per prima, portò la luce per i bambini creando un asilo; il nobile gesto rimase vano, perché all’educazione del bimbo si succedeva quella dell’ambiente, che non poteva, certo, essere rassicurante perché lì si viveva la tragica esistenza dell’abbandono e la miseria dominava nelle sue più turpi manifestazioni.
La Provvidenza divina calò su quella popolazione stanca di soffrire per redimerla, imponendo agli uomini, soprattutto ai Governi, il problema di Africo, che l’alluvione del 1951 ha ravvivato, perché le precedenti non erano state sufficienti a imporlo. In seguito a quest’ultima alluvione del vecchio Africo rimane solo il ricordo, perché le terre coltivate, per poche che erano, sono scomparse, le case, o meglio i tuguri, tutte danneggiate e inabitabili per la minaccia continua delle frane, il bestiame decimato e scomparso nella furia del cataclisma, ma al ricordo dell’Africo, che era, si aggiunge il dolore delle dieci vittime dell’alluvione, tre delle quali hanno potuto trovare quella sepoltura che le montagne in frana possono dare. Se di Africo, però, si ha solo il ricordo, oggi abbiamo la realtà della popolazione del vecchio paese, che attende ansiosa di vedersi sistemata in maniera che non le manchi il pane quotidiano e sia rassicurata che la sistemazione renderà la vita tranquilla e, se non altro, scevra di apprensioni e preoccupazioni per l’indispensabile al minimo sostentamento della vita. L’alluvione costrinse la popolazione ad evacuare l’abitato, né è stato possibile trovare nello stesso territorio del comune di Africo un’area edificabile per far sorgere le abitazioni occorrenti. La natura del terreno, come è stato detto, è friabile e le montagne sono in continua disgregazione perché costituite da elementi eterogenei: arenarie, argille, ecc. Per consolidarlo, oltre a costruire opere d’imbrigliamento per evitare le frane, occorrerebbe il decisivo intervento forestale per ripopolare di boschi il vasto comprensorio restituendolo così alla sua funzione naturale e ripristinando la ricchezza nel patrimonio boschivo. Si tenga presente che il territorio di Africo ricopre una superficie di 5.000 ettari di cui più di due terzi non può essere destinata a colture boschive.
La popolazione da quasi due anni vive raccolta in centri profughi, gravando sullo Stato con una spesa giornaliera per la sola assistenza vittuaria di L. 625.000, circa L. 228.000.000. Se a questa si aggiunge la spesa per altra assistenza, quella per indumenti, effetti letterecci e altro, si tratta che ad oggi si sia superato il miliardo.
L’assistenza, invero, è stata soddisfacente e merita ogni plauso S.E. il Prefetto di Reggio Calabria e il Direttore dell’Ufficio Provinciale Assistenza Pubblica, Comm. Mannino, che affettuosamente sono venuti incontro ai bisogni di una popolazione povera, ridotta ancora più misera per i danni subiti a causa dell’alluvione.
La sensibilità di S.E. il Prefetto, Comm. Moccia, per il problema di Africo è stata profondamente nobile, ma nonostante i suoi sforzi per sistemare definitivamente la popolazione di Africo nel nuovo abitato, che sorge in località “Maglie” del territorio del comune di Bianco, lontana cioè dall’originario proprio territorio, questa rimane ancora nella massima parte assistita nei centri profughi perché ancora mancano le abitazioni e quelle disponibili non possono essere occupate perché nella predetta contrada non vi può essere fonte di vita per una popolazione composta quasi di 2.600 anime se non si attuano delle opere che il problema esige[ii].
Il 12 gennaio 1956 il Comandante del Gruppo di Reggio Calabria, maggiore Francesco Elia, inviò al Comando Generale dell’Arma una relazione circa la situazione degli alluvionati nel comune di Africo, che prendeva le mosse da una segnalazione della Compagnia di Locri e da un rapporto informativo speciale del 28 maggio 1955, il cui contenuto merita di essere trascritto, tenendo conto che quell’ufficiale riteneva «doveroso prospettare la particolare situazione degli alluvionati[iii] del comune di Africo, al fine di rendere chiare le ragioni del presente stato di crisi, che richiede urgente e definitiva risoluzione»:
La popolazione complessiva di Africo, alla data dell’alluvione – 15 ottobre 1951 – era di 2.481 abitanti, raggruppati nei due centri urbani di Africo – per 1.304 abitanti – e frazione Casalnuovo – per 1.177 abitanti; agglomerati, questi, distanti tra loro 6 km circa e di fatto separati per caratteri etnici, tradizioni, motivi storici diversi.
Subito dopo l’alluvione, che ebbe a produrre danni e vittime, gli abitanti di Africo si trasferirono dapprima sull’altopiano d’Aspromonte e, quindi, in seguito alla promessa di una loro definitiva sistemazione in un nuovo abitato da costruirsi a cura dello Stato, in vari centri appositamente allestiti a Reggio Calabria, Fiumara, Bova Marina.
La popolazione di Casalnuovo si trasferì anch’essa, nell’agosto 1952, in centri, composti di baracche, costituiti nei pressi di Bova Marina.
Questo trasferimento degli abitanti del comune di Africo fu sanzionato con decreto del Ministero dei LL.PP. 2 aprile 1952, in esecuzione del quale fu dato inizio alla costruzione, a cura del Genio Civile, nella località prescelta di “Maglie” nel territorio del comune di Bianco, dell’agglomerato di Africo Nuovo, che comprende, allo stato, oltre ai servizi pubblici, fra cui la caserma dell’Arma, 166 alloggi già assegnati e 80 baracche donate dalla Croce Rossa svedese.
Altri alloggi sono stati appaltati e altri, con il contributo dello Stato, saranno ricostruiti da privati, proprietari di case alluvionati. Fu chiaro, sin dall’inizio, che la costruzione dell’agglomerato di Africo Nuovo, disposta con decreto ministeriale innanzi citato, costituisce un gravissimo errore, che è stato ed è ragione prima della situazione di crisi che da tanto tempo è manifesta.
Nella scelta della località – sita in linea retta ad oltre 30 km di impervia mulattiera dall’abitato di Africo e 59 km di strada ordinaria oltre 18 di vista parzialmente camionabile di mulattiera – come è stato riconosciuto anche, in una relazione del 20 settembre 1953, da una speciale commissione interministeriale, trascurando ogni altro criterio, si tenne soltanto conto della natura archeologica e topografica del terreno.
Sicché, staccata dal proprio ambiente originario, in seno a cui, sia pure in un quadro di primordiale economia, fruiva di sufficienti fonti di vita e di lavoro, la popolazione di Africo avrebbe dovuto trovare, nel piccolo spazio prescelto in un lontano comune, tormentato peraltro da disoccupazione e relativa improduttività agricola, indispensabili mezzi di sostentamento, a meno che non fosse stata per essa creata una nuova economia, su basi nuove.
Il risultato è che si è distrutta una economia montana sia pure povera e primitiva, senza che ne sia stata creata alcun’altra.
La popolazione già trasferita ad Africo Nuovo vive perciò quasi esclusivamente fondando sull’assistenza della Prefettura, sulle retribuzioni di inutili, improduttivi cantieri di lavoro, su saltuarie prestazioni presso aziende private appaltatrici dei lavori pubblici nelle vicinanze.
Si sente, perciò stesso, autorizzata a domandare lavoro e assistenza e, per questi motivi, ad inscenare spesso dimostrazioni di piazza, nella convinzione, non del tutto ingiustificata, che spetti allo Stato – dai cui organi è discesa la determinazione di costruire Africo
Nuovo e del trasferimento degli africoti – di provvedere al suo mantenimento.
Preoccupati e stanchi di siffatta situazione, alcuni abitanti di Africo, già proprietari di case e in diritto quindi di ricostruire con il contributo dello Stato, hanno da qualche tempo preso l’iniziativa di costruire delle abitazioni in località “Carruso” sita a un chilometro da Africo Vecchio, riconosciuta abitabile da tecnici e geologi.
Ma, anche comportando, la costruzione di questa nuova borgata, lavori imponenti per il rifornimento idrico, l’allacciamento stradale, lo spianamento del terreno e l’impianto della legge elettrica; pure ammesso il grande beneficio che sarebbe derivato restituendo vita produttiva a un terreno abbandonato e richiamando almeno un terzo della popolazione di Africo alle naturali, originarie proprie fonti di lavoro, è stato opposto, dal Genio Civile e dal Provveditorato delle OO.PP., che non sono disponibili interventi statali di natura diversa da quelli statuiti in relazione al decreto ministeriale già accennato circa la costruzione di Africo Nuovo in località Maglie.
L’intervento, non di meno, del Prefetto presso gli uffici competenti e il Comune di Africo ha consentito di superare alcune difficoltà e realizzazioni di varie specie, come l’offerta gratuita del suolo edificatorio – che è proprietà comunale – l’istituzione di cantieri scuola per i lavori relativi al raccordo stradale e all’acquedotto, l’intervento del Comune per la fornitura dell’energia elettrica e quello del Provveditorato alle OO.PP. per la costruzione di almeno 20 alloggi per famiglie non proprietarie di case. Si spera, in questo modo, di stimolare l’interesse e l’attenzione degli africoti per indurli a tornare spontaneamente alle loro sedi originarie.
Questo problema, tuttavia, è limitato alla sola sfera di Africo Vecchio, gravitando gli interessi locali dei casalnuovesi su zone diverse. La situazione è comunque imperniata sulla base del nuovo abitato di Africo Nuovo e di qualche prospettiva, per i soli africoti, a “Carruso”. Nella prima località africoti e casalnuovesi saranno in maggioranza sistemati, in lotti distinti e separati, dati i caratteri diversi e contrastanti delle due popolazioni.
Africo Nuovo è quindi una realtà e costituisce il punto essenziale del problema.
Sotto il profilo giuridico-amministrativo, malgrado la proposta già fatta per l’allacciamento territoriale – attraverso una lunga fascia di territorio da distaccarsi dal Comune di Bianco e di Caraffa del Bianco – del nuovo agglomerato di Africo nuovo ad Africo vecchio, non è stato finora concretamente deciso così che tuttora permangono anche in questo settore numerosi problemi insoluti, particolarmente gravi in materia di imposizione tributaria e atti di stato civile.
A parte il fatto delle reazioni e dell’ostilità, sempre più accentuate, delle popolazioni già interessate e che potrebbero essere interessate dai provvedimenti esecutivi.
Sotto il profilo assistenziale, esistono del pari inconvenienti seri, pregiudizievoli, connessi essenzialmente con la misura e le forme di sussidio e con la lentezza burocratica delle pratiche dei contributi statali, tutti dovuti all’immobilismo della situazione.
Sotto il profilo dell’ordine pubblico, infine, è ben ovvio come caratteri specifici di ogni aspetto del problema degli alluvionati di Africo si presti, comunque, a speculazione, ad incerti, a turbamenti.
Le condizioni dell’ordine pubblico in seno alle popolazioni interessate sono, di norma, sensibilizzate, malgrado l’attento controllo esercitato dall’Arma.
Si impongono, pertanto, provvedimenti risolutivi urgenti.
Sarebbe auspicabile un nuovo attento esame della situazione da parte di apposito speciale collegio superiore per la sistemazione definitiva della lunga pendenza; ma, ove non fosse opportuno modificare le linee programmatiche tracciate sin dall’inizio, sarebbe senz’altro doveroso, da parte degli organi governativi, intervenire subito, e mediante l’approvazione del progetto dell’allacciamento territoriale di Africo nuovo ad Africo vecchio – che comporterebbe lavori per circa un miliardo, necessari per la costruzione della strada diretta – oppure mediante la costituzione di un nuovo comune di Africo Nuovo, con territorio da trarsi dal Comune di Bianco
nella parte improduttiva e paludosa del torrente “La Verde”, che potrebbe essere bonificato, secondo serie proposte avanzate, e poscia assegnato, in lotti, ai nuclei familiari del nuovo centro comunale.
In entrambi casi, pur ammessi errori inevitabili di prassi e di adeguamento, si darebbe per lungo tempo lavoro all’intera popolazione e sarebbero, poi, assicurati i normali mezzi di lavoro e fonti di vita.
L’enorme gravame assistenziale a carico dello Stato, che è finora pervenuto a circa un miliardo e trecento milioni di lire e continua a salire, verrebbe almeno a cessare.
Si ristabilirebbero, inoltre, su basi definitive, le condizioni ambientali, quelle giuridico-amministrative, e, si otterrebbe conseguenzialmente una fisionomia precisa nelle attività sociali, nella vita e nelle espressioni di questi poveri montanari.
Il generale Guido Grassini, Comandante della 3a Divisione Carabinieri Ogaden, aveva effettuato una visita alle pendici sud-orientali dell’Aspromonte, ma l’ufficiale che lo accompagnava «magnificò, anche sotto il profilo della bonifica morale, l’iniziativa che aveva portato il trasferimento della popolazione del comune di Africo in piano».
La lettura della relazione del maggiore Francesco Elia, Comandante del Gruppo di Reggio Calabria, consentì all’ufficiale superiore di comprendere la reale situazione e che il suo accompagnatore non aveva approfondito il problema nelle sue conseguenze sociali ed economiche.
Per tale ragione il generale Grassini elogiò il comportamento del maggiore Elia e la rilevanza dell’analisi compiuta tenendo conto di tutti gli elementi della situazione complessiva.
In seguito, una relazione del Comando Generale del 19 agosto 1952 riferì al Ministero dell’Interno e a quello dei lavori pubblici circa l’agitazione di 90 famiglie.
Il rapporto muoveva dalla constatazione che, in conseguenza dei danni causati dalle alluvioni – che avevano determinato, tra l’altro, lo sfollamento di famiglie della frazione di Casalnuovo di Africo – i competenti organi centrali avevano disposto lo spostamento del comune di Africo e della frazione di Casalnuovo in contrada Maglie-Quercia, territorio del comune di Bianco.
In questa località erano già sorti dei baraccamenti in legno, forniti gratuitamente dalla Croce Rossa Svedese, ed erano in via di costruzione alloggi in muratura dove ricoverare i profughi del comune di Africo, in quel periodo sfollati in parte a Reggio Calabria e in parte a Bova Marina, nonché gli abitanti della frazione di Casalnuovo; che avrebbero preferito il consolidamento del loro abitato, cosa che era stata considerata inattuabile per la franabilità del terreno. Circa 90 famiglie, tuttavia, nel timore che con l’avvicinarsi della stagione autunnale potevano andare incontro a pericoli per la precarietà delle condizioni dei loro alloggiamenti, si erano da poco tempo trasferite in un campo attiguo al centro profughi di Bova Marina, così da poter avere in assegnazione alcune baracche già costruite in quel luogo e di sollecitare, al tempo stesso, la costruzione di altri baraccamenti.
Nonostante l’interessamento delle autorità provinciali, tuttavia, il completamento dei lavori per i baraccamenti richiedeva ancora del tempo e, d’altra parte, le famiglie insistevano nel voler rimanere in attesa, all’aperto, sotto gli alberi, anziché tornare alle loro case.
Si trattava della costruzione di 246 alloggi che comunque non sarebbero stati sufficienti per tutti gli abitanti di Africo e Casalnuovo.
Per tale motivo l’Arma segnalò tale criticità «onde, allo scopo di risolvere radicalmente la questione, viene auspicato che siano stanziate altre somme anche perché, trattandosi nella stragrande maggioranza di famiglie poverissime, non sipuò nutrire speranza che esse si avvalgano delle agevolazioni concesse dallo Stato, per coloro che intendono costruire una casa per proprio conto»[iv].
Da una nota al Ministero dell’Interno del 1952 si apprende che il numero delle famiglie alluvionate nella frazione di Casalnuovo, che si erano gradualmente trasferite a Bova Marina, risultava essere di 150, per un totale di 600 persone. Le donne, i bambini e gli anziani erano stati alloggiati in 18 vani baracche presso il centro di assistenza alluvionati di quelle località, mentre i rimanenti uomini in buona salute si erano accampati all’aperto e non era stato possibile trovare per loro alcuna sistemazione, poiché non vi erano, neanche nei comuni contermini, alloggi disponibili.
Si era dunque provveduto alla costruzione, d’urgenza, di baracche-dormitorio. Sistemazione provvisoria, in attesa che il Genio Civile fosse stato in grado di consegnare 80 casette prefabbricate, offerte dalla Croce Rossa Svedese e parte di casette in corso di costruzione a cura del Ministero dei Lavori Pubblici. Senonché, il Genio Civile aveva rappresentato la difficoltà di reperire i materiali per la costruzione, in particolare il cemento occorrente, e dunque di completare i locali, stimando un’attesa di alcuni mesi.
Per tali motivi le famiglie avevano protestato, animate altresì dall’esigenza morale di ricostituire i nuclei familiari, dispersi nei vari dormitori.
Una relazione del Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste del 14 gennaio 1953 escludeva la possibilità di ripristinare le condizioni di vita del paese di Africo, spegnendo ogni speranza circa un eventuale rientro della popolazione a seguito di specifici interventi.
Quanto accaduto a seguito dell’alluvione dell’ottobre del 1951, infatti, era stato causato dalla costituzione geologica del territorio, rappresentata in prevalenza da arenarie e argillocisti che avevano permesso alle acque di agire direttamente sulla parte argillosa del terreno, producendo la disgregazione di questo che, favorito dalle forti pendenze collinari, aveva creato immense frane e innumerevoli smottamenti senza che le piantagioni arboree esistenti in quell’area avessero potuto arginare lo scorrimento a valle. In alcune zone era addirittura emerso il sottosuolo roccioso per sensibili superfici.
Per quanto i torrenti Aposcipo e Poro, affluenti del La Verde, fossero stati in più luoghi sbarrati, la violenza delle acque a fondovalle aveva spezzato gli sbarramenti, sommergendo e asportando i migliori terreni irrigui; la continua erosione del basale collinare aveva moltiplicato le frane e gli smottamenti. I danni rilevati consistevano nell’asportazione di tutti i seminativi irrigui lungo l’Aposcipo, il Poro e i loro piccolissimi affluenti, nonché nella distruzione e nel forte impietramento di molti seminativi irrigui e arborati (oliveti e vigneti) della zona collinare e nel crollo di terrazze e di muri a secco di contenimento.
Notevoli estensioni di terreno apparentemente indenni erano suscettibili di essere distrutte in breve tempo, in considerazione della loro compromissione a seguito delle frane che si erano verificate a valle o nelle immediate vicinanze.
Alcuni terreni potevano essere ripristinati, ma la spesa occorrente risultava troppo onerosa, sia per le difficoltà di trasporto dei materiali, sia per la mancanza di manodopera, superando così il valore dei terreni stessi.
D’altra parte, gli stessi proprietari manifestavano una certa riluttanza a investire ingenti somme per ripristinare terreni che, con qualsiasi intervento, avrebbero mantenuto sempre il magro reddito precedente e dai quali il nuovo centro urbano distava oltre 20 chilometri di strada impervia.
Del resto, il ripristino delle zone danneggiate non avrebbe risolto il problema dell’assistenza alla popolazione del comune di Africo, perché la pastorizia, fonte principale di sostentamento, non poteva più essere praticata a causa della riduzione della superficie adatta al pascolo, circostanza dovuta all’alluvione, all’instabilità dei terreni tra frana e frana e all’opera di vincolo e di protezione che il Corpo delle Foreste avrebbe dovuto quanto prima attuare per la sistemazione dell’Alto Bacino del La Verde.
Peraltro non era stato possibile ricorrere, come per il passato, al sussidio di terreni dei comuni limitrofi, in quanto quelli di Samo – contrada Territorio, di circa 600 ha di proprietà del barone Franco – da cui gli abitanti di Africo, in qualità di enfiteuti, traevano il completamento necessario alle loro possibilità lavorative e al loro esiguo reddito, erano stati danneggiati da enormi frane, che avevano distrutto terrazze, abitazioni, stalle e ricoveri. Questo stato di cose aveva coinvolto quasi tutti i terreni di proprietà del comune di Africo e lo stesso centro abitato era stato sgomberato dagli abitanti per ragioni di sicurezza e la popolazione trasportata, come detto, sulla litoranea a Bova Marina, a circa 20 chilometri di distanza dal vecchio centro.
Dagli accertamenti effettuati risultò che i terreni distrutti o non ripristinabili rappresentavano il 65% delle superfici alluvionate e che, di contro, i terreni ripristinabili costituivano circa il 35%.
Le famiglie sfollate ammontavano a circa 600, per un complesso di 2.970 persone.
Il Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste ritenne quindi che i provvedimenti da attuarsi fossero la demanializzazione, da parte dell’Azienda di Stato foreste demaniali, dei terreni distrutti o danneggiati dall’alluvione e l’acquisto di terreni da parte dell’Opera per la valorizzazione della Sila, da assegnare poi alle famiglie sinistrate.
[i] Questi dati furono raccolti e comunicati alla Prefettura dalle Commissioni di Soccorso che in ciascun Comune lo stesso Prefetto aveva fatto costituire sotto la presidenza del Sindaco e con la partecipazione del Presidente dell’E.C.A., del Parroco e del Comandante della locale Stazione dei Carabinieri. Cfr. Relazione del Prefetto di Reggio Calabria al Ministero dell’Interno, in ASRC, Ufficio Provinciale Assistenza Pubblica, B. 15, Fascicolo 93: Alluvione 1951 – Lettere al Ministro dell’Interno – Sfollati Casalnuovo nei centri di Bova Superiore e Bova Marina 1952-1953.
[ii] ASRC, Ufficio Provinciale Assistenza Pubblica, B. 15, Fascicolo 93: Alluvione 1951 – Lettere al Ministro dell’Interno – Sfollati Casalnuovo nei centri di Bova Superiore e Bova Marina 1952-1953.
[iii] Con Decreto Legge del 20 novembre 1951 n. 1194 ai profughi delle zone alluvionate furono estese le provvidenze assistenziali vigenti per i profughi di guerra e stabilito un beneficio di assistenza anche ai sinistrati in condizioni di particolare bisogno. Per profughi dovevano intendersi coloro che, per danni alle loro abitazioni, avevano trasferito la residenza in altri Comuni, a essi spettava ricovero e il mantenimento a spese dello Stato se raccolti in concentramenti e alimentati collettivamente, oppure, nel caso vivessero per proprio conto, un sussidio giornaliero di 250 lire per il capo famiglia e di 100 lire per ciascun componente del nucleo familiare. Per sinistrati dovevano intendersi coloro che erano rimasti danneggiati in misura rilevante e quindi rimasti in condizioni di particolare bisogno, ma che non si erano allontanati dai rispettivi Comuni o vi avevano fatto ritorno.
[iv] ASRC, Ufficio Provinciale Assistenza post-bellica, B. 15, Fascicolo 93: Alluvione 1951 – Lettere al Ministro dell’Interno – Sfollati Casalnuovo nei centri di Bova Superiore e Bova Marina 1952-1953.
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