Carabinieri a Reggio Calabria
A PROPOSITO DEL NOME ‘NDRANGHETA – Postfazione di John Dickie
La Calabria ha sempre rappresentato una particolare sfida per le risorse, le energie e la legittimazione politica dello Stato italiano. Le ragioni sono molteplici e ben note: il territorio impervio della regione; la sua vulnerabilità di fronte ai disastri naturali come alluvioni e terremoti; il suo isolamento rispetto alle principali traiettorie dell’economia nazionale e internazionale; la mancanza di centri urbani considerevoli, se confrontati con Napoli o con le città della Sicilia, in grado di attirare l’attenzione politica del potere nazionale centrale; la persistente inadeguatezza delle infrastrutture di trasporto… L’elenco potrebbe continuare. Questo volume, che racchiude la ricostruzione organica dell’azione dei Carabinieri nella provincia, oggi Città Metropolitana, di Reggio Calabria dall’Unità d’Italia fino al 1970, si fonda per la gran parte su documentazione conservata negli archivi storici dell’Arma e nell’Archivio di Stato di Reggio Calabria. Alcune di queste fonti non sono mai state prima d’ora oggetto di indagine storica.
Poiché i carabinieri hanno dovuto fronteggiare le macroscopiche e microscopiche sfide del territorio calabrese fin dal loro arrivo a Reggio Calabria nel 1860, in un modo che non trova paragoni in altri settori dello Stato italiano, questo libro offre notevoli approfondimenti sui molteplici aspetti della storia calabrese che ho prima enumerato.
Il capitolo introduttivo, sull’enorme difficoltà di istituire una rete di caserme senza le quali le forze dell’ordine non avrebbero potuto avere una significativa e capillare presenza sul territorio, è un chiaro esempio. Si potrebbero citare altri casi, come le pagine sulle agitazioni a seguito della Seconda Guerra Mondiale e quelle sull’assistenza fornita dall’Arma alla popolazione all’indomani di eventi drammatici come l’alluvione di Africo del 1951.
Il risultato è una dovizia di dettagli per la quale tutti gli storici del settore non potranno che essere grati. Tuttavia, in cima alla lista delle preoccupazioni dell’Arma dei Carabinieri negli ultimi 160 anni si sono imposti i problemi legati alla criminalità, e in particolar modo alla criminalità organizzata. Il potere e il raggio di azione della ’ndrangheta, un’associazione di tipo mafioso che affonda le sue radici in Calabria, ma con colonie in aree come il Nord America, l’Australia, il Nord Europa e l’Italia settentrionale che ne fanno senza dubbio la più globale tra le contemporanee organizzazioni criminali, riveste di una particolare urgenza il compito di analizzare la sua storia. Pertanto, è sui contributi che il libro offre a questa sfida che ora intendo concentrarmi.
Il mio obiettivo in queste poche pagine non è quello di sintetizzare tutto ciò che si dovrebbe apprendere da questo lavoro sulla lotta contro la ’ndrangheta: l’enorme mole di documentazione e la grande quantità di informazioni e spunti semplicemente non permettono che un obiettivo come questo risulti realistico per una semplice introduzione. Mi voglio concentrare, invece, su una piccola ma estremamente importante scoperta contenuta nel volume. Si tratta di un dettaglio che, in quanto storico della criminalità organizzata in Italia, mi ha dato motivo di riflettere, così come immagino che molte altre pagine del libro offriranno altrettanti spunti di riflessione ad altri storici.
Nel sesto capitolo, veniamo a conoscenza del processo del 1929 contro un’associazione criminale di Ardore, nella Locride. Si tratta di un’azione penale basata su un rapporto dei Carabinieri di Gerace Marina redatto nel maggio dell’anno precedente. L’associazione utilizzava l’intimidazione e l’estorsione per infiltrarsi in ogni aspetto della vita economica e sociale: «non una compra, non una vendita e persino un matrimonio poteva farsi senza pagare una tangente agli associati».
Come certificato nella relativa sentenza, durante il procedimento, un testimone dichiarò che, nel 1920 o nel 1921, sulla spiaggia di Ardore, un malavitoso gli aveva consigliato di entrare nella «setta ndrangata». Per quanto mi risulta, non esiste al momento un’altra evidenza storica documentata, precedente a questa, dell’uso della parola ’ndrangheta (o di altre trascrizioni simili) con riferimento specifico all’attività di associazioni criminali. In breve, si tratta della più antica prova conosciuta che identifichi la ’ndrangheta col suo nome moderno.
Prima di questa scoperta, il più antico uso documentato del termine in un contesto criminale risaliva al 1927. Appare, infatti, in uno statuto della malavita, lungo 36 pagine, che in quell’anno venne consegnato ai carabinieri da un affiliato di Gallico (e che sarebbe stato presentato come prova in un processo del 1931). Lo statuto include un lessico di un tipo di gergo malavitoso che risulta relativamente diffuso fin dai primi resoconti sulla criminalità organizzata nell’Italia meridionale.
Stavolta, tuttavia, compare una novità tra le parole elencate: “Dranghita” è presentato come sinonimo di “La Società”[i]. C’è un elemento che colpisce e che accomuna queste due prime menzioni della parola ’ndrangheta in riferimento alle associazioni criminali calabresi: entrambe provengono da fonti interne, da affiliati, piuttosto che dalle autorità o dalla cultura in senso lato. È opportuno mettere a confronto questo aspetto con ciò che conosciamo delle origini dei termini mafia e Cosa Nostra in Sicilia. Dal poco che sappiamo, il termine mafia sembra provenire dal dialetto di Palermo, un ambiente nel quale aveva le accezioni positive di bellezza e padronanza di sé. Solo dopo la popolarità della rappresentazione teatrale I mafiusi di la vicaria del 1863 il termine divenne di uso comune in un contesto criminale[ii]. Tuttavia, almeno nel ventesimo secolo, i mafiosi per primi sembrano aver mostrato una certa riluttanza ad identificarsi con esso, preferendo piuttosto termini come Onorata Società. Notoriamente, Tommaso Buscetta avrebbe detto a Giovanni Falcone che lui e altri uomini d’onore siciliani si riferivano alla loro fratellanza criminale non chiamandola mafia ma Costa Nostra. Però, come Salvatore Lupo ha recentemente dimostrato, anche Cosa Nostra proviene dall’esterno dell’organizzazione.
Nel 1963, Joe Valachi, un membro di basso rango della mafia americana, che significativamente non parlava italiano, testimoniò di fronte ad una commissione del Senato degli Stati Uniti che aveva sentito altri affiliati riferirsi all’organizzazione chiamandola “Cosa Nostra” nel corso di conversazioni che si erano svolte in italiano e che pertanto erano per lo più incomprensibili per lui. L’errore di Valachi fu quello di male interpretare queste parole intendendole come un nome proprio, con tanto di maiuscole, mentre in realtà è probabile che si trattasse semplicemente di un modo volutamente vago con cui i mafiosi erano soliti riferirsi ai loro affari in generale, piuttosto che all’organizzazione criminale come tale. In seguito, secondo Lupo, attraverso una sorta di effetto eco, la pubblicità che circondò le confessioni di Valachi finì per accreditare il nuovo appellativo all’interno della mafia su entrambe le sponde dell’atlantico, rendendolo “ufficiale[iii]. Proviamo a collocare nel loro contesto i primi riferimenti del 1920-21 e del 1927 alla parola ’ndrangheta, per coglierne, fin dove ci è possibile, l’esatto valore storico e comprendere più in generale il significato del nome ’ndrangheta.
I documenti citati dall’autrice, con riferimento ai carteggi giudiziari, si riferiscono a una tipologia di fonti piuttosto nota a chi abbia familiarità con i numerosissimi processi per associazione a delinquere celebrati nella provincia di Reggio Calabria a partire dagli anni ‘80 dell’800. Ci fu, certamente, un’ondata repressiva significativa diretta contro le associazioni criminali attive nella provincia di Reggio Calabria e oltre alla fine degli anni ‘20. Un rapporto leggermente precedente, anch’esso redatto dai carabinieri di Gerace Marina, per esempio, aveva concentrato la sua attenzione su una “banda di estorsori” che praticavano “prepotenze angherie, estorsioni, danneggiamenti, lesioni e furti” a S. Ilario, un paese situato tra Ardore e Locri a poca distanza da entrambi4[iv]. In entrambe le località l’associazione criminale si era infiltrata nello stato e nelle organizzazioni fasciste. Ad Ardore, il boss sembra essere stato Nicola Proto, soprannominato “Il prefetto” – un uomo che da origini estremamente umili aveva raggiunto una posizione attraverso la quale “ha saputo trovar modo di affiancarsi ad alti funzionari, a Gerarchi del Partito Nazionale Fascista e perfino ad Eccellenze quasi in cerca di luci che avessero potuto togliere le ombre”. Nelle vicinanze, a S. Ilario, i carabinieri indicarono come capo il sindaco del paese, Bruno Principato, poi nominato podestà nel 1926. Da questi e altri documenti processuali dei periodi liberale e fascista, molti dei quali basati su fonti interne (o collaboratori di giustizia, come potremmo chiamarli oggi), emerge una fotografia chiara delle associazioni criminali calabresi. Per esempio, esse hanno una struttura basata sulla divisione tra i criminali più esperti (come quelli chiamati “Camorristi”) riuniti nella Società maggiore, e i membri più giovani (“picciotti”) che appartengono alla Società minore. Sono presenti, inoltre, rituali di iniziazione: la sentenza della Corte di appello di Catanzaro sul caso di Ardore sopra ricordato fa riferimento a “un taccuino con le norme della malavita” e “un foglio a lapis con la formula del giuramento” che era stato scoperto durante una perquisizione nella casa del boss[v]. Non si tratta di bande criminali isolate che limitavano le loro operazioni a un villaggio o a un gruppo di villaggi. I rituali e i metodi sono identici in tutta la regione e ci sono concreti collegamenti tra le cellule locali. Questi collegamenti possono riguardare sia i business criminali (il bestiame rubato nella Locride, per esempio, veniva piazzato sul mercato della Piana di Gioia Tauro) sia le procedure e le strutture dell’associazione criminale (già negli anni ‘80 e ‘90 dell’800, le figure carismatiche dell’organizzazione sembrerebbero aver viaggiato lungo ampie aree dei territorio per presiedere alle iniziazioni)[vi]. Inoltre, come Fabio Truzzolillo ha dimostrato, dal 1927 molti documenti rivelano anche l’esistenza di organi di coordinamento denominati Criminale e Gran Criminale, che erano investiti dell’autorità di pronunciarsi sulle dispute di diverso tipo sorte all’interno della fratellanza criminale[vii]. Non è ben chiaro se questi organi fossero del tutto nuovi negli anni ‘20, perché ci sono riferimenti al fatto che già nel 1894 si tenessero incontri tra gli affiliati di tutta la provincia presso il Santuario di Polsi in occasione della festa[viii].
Tutti questi elementi indicano con certezza una linea diretta di discendenza tra l’associazione criminale rivelata dai procedimenti fin dagli anni ‘80 dell’800 e l’organizzazione messa in luce in processi come Crimine nel ventunesimo secolo: essi ci mostrano la stessa ’ndrangheta. Non mancano, tuttavia, accenni anche ad alcuni cambiamenti nel suo modus operandi. Per esempio, lo sfruttamento della prostituzione, che era ampiamente praticato dai primi ‘ndranghetisti, tanto da essere sostanzialmente generalizzato, cadde in disuso tra la fine degli anni ‘20 e l’inizio degli anni ‘30 ed è oggi considerato disonorevole dagli ‘ndranghetisti. Più o meno simultaneamente a questo cambiamento, vediamo apparire nelle carte processuali le prime alleanze matrimoniali strategiche tra gli affiliati. È piuttosto probabile che questi due cambiamenti fossero in relazione l’uno con l’altro[ix].
La comparsa del nome ’ndrangheta rappresenta un’altra novità di questo periodo caratterizzato da mutamenti significativi. La fratellanza criminale che oggi noi conosciamo come ’ndrangheta si portava dietro, fin dalla sua prima apparizione nella documentazione storica negli anni ‘80 del XIX secolo, una serie di nomi differenti: camorra, mafia, picciotteria, onorata società, famiglia onorata, e così via. Invece il nome ’ndrangheta, per quanto ne sappiamo, non appare nei primi processi prima dei casi citati del 1920-21 e del 1927 (sebbene, certamente, è impossibile escludere che altre scoperte d’archivio possano estendere all’indietro l’arco temporale).
D’altro canto, i documenti processuali ci dicono che anche in quel particolare frangente degli anni ‘20 la parola ’ndrangheta non era ancora il termine prevalentemente usato dagli affiliati per riferirsi alla loro fratellanza: venivano usati con più frequenza altri nomi. Né le forze dell’ordine e i giudici prestarono particolare attenzione a questa novità: presumibilmente non sembrava avere alcuna importanza particolare. Detto ciò, un certo Maresciallo Caiazzo, in un rapporto citato in un processo del 1934 su un’associazione criminale attiva ad Armo di Gallina, attribuì una qualche “ufficialità” al nome: “per l’associazione, il Caiazzo denunziava che aveva nome ‘ndrangata, gergo proprio, inintelligibile ai profani”[x].
Ciò nonostante, siamo sicuri che il termine ’ndrangheta non sia diventato di uso pubblico fino al secondo dopoguerra, a seguito della grande attenzione della stampa dell’epoca per l’operazione Marzano del 1955. Gli articoli di Corrado Alvaro sul Corriere della Sera sembrano avere avuto un ruolo centrale nel rendere il termine popolare[xi].
La ricerca più ampiamente citata sull’etimologia della parola ’ndrangheta è racchiusa in due articoli di Paolo Martino, pubblicati rispettivamente nel 1978 e nel 1988[xii]. Martino stava conducendo negli anni ‘70 un lavoro sul campo nell’area di Bova, caratterizzata dall’uso del dialetto Grecanico, quando, non sorprendentemente, si trovò di fronte all’equivalenza di significato, già ben stabilita, tra “‘ndrangheta” e “mafia”. Martino trova il primo esempio documentato della corrispondenza ’ndrangheta-mafia in un dizionario del 1934. Nello specifico, cita il lavoro del famoso dialettologo tedesco Gerhard Rohlfs: Dizionario dialettale delle tre Calabria con note etimologiche e un’introduzione sulla storia dei dialetti calabresi[xiii].
Rohlfs ci consegna la seguente definizione:
‘ndránghita f. malavita (gergo).
È importante sottolineare che Rohlfs ritiene che la corrispondenza tra ’ndrangheta e mafia non sia valida per l’intero dialetto calabrese del tempo, ma sia un uso, forse nuovo, proprio di uno specifico gergo (criminale). È degno di nota, a questo proposito, il fatto che Rohlfs scriva a poco tempo di distanza dagli anni ‘20, che rappresentano il momento in cui per la prima volta possiamo osservare, attraverso i documenti processuali, gli affiliati dell’onorata società riferirsi alla loro fratellanza chiamandola ’ndrangheta. In altre parole, ciò che Rohlfs sostiene, cioè che ’ndrangheta=mafia sia una equivalenza recente e specifica della malavita, combacia con ciò che possiamo evincere dalle prove in nostro possesso relativamente ai primi usi della parola ’ndrangheta per riferirsi ad un’associazione criminale. Basti pensare a quanto afferma il Maresciallo Caiazzo in un processo svoltosi nello stesso periodo storico della definizione di Rohlfs: “‘ndrangata, gergo proprio, inintelligibile ai profani”.
Il principale contributo di Martino alla nostra conoscenza della storia della parola è quello di dimostrare che essa affonda le sue origini nel Greco antico, nel quale troviamo ‘ἀνδράγαθος “uomo nobile, coraggioso, degno di rispetto in virtù delle proprie capacità” e ἀνδραγαθέω “distinguersi per atti di valore, compiere azioni degne di gloria e onore”[xiv]. Conseguentemente, il termine assume significati positivi anche in dialetto calabrese e ha una storia che Martino cerca di tratteggiare. Ovviamente, al tempo dei suoi studi, Martino non poteva avvalersi dei risultati conseguiti dalla stagione di ricerche di archivio sulle origini della ’ndrangheta avviata dal lavoro di Enzo Ciconte del 1992[xv]. Ciò che voglio qui sostenere è che queste nuove ricerche storiche ci lasciano supporre che Martino abbia sbagliato quando si è allontanato dal sentiero dell’etimologia per incamminarsi sul terreno della storia, in particolare della storia del crimine organizzato in Calabria. Ciò che Martino sostiene è che la parola ’ndrangheta di origine greca con la sua accezione sostanzialmente positiva sia diventata, a un certo punto non ben specificato, il nome di una tradizionale Onorata Società che accuratamente incarnava i valori positivi e virili impliciti nel termine. Ciò nonostante, il termine ’ndrangheta avrebbe acquisito caratteristiche negative a causa di due processi storici: 1) la dura repressione, unitamente a ciò che Martino definisce “criminalizzazione” dell’Onorata Società da parte del neonato Stato italiano; 2) il modo in cui, nel dopoguerra, la vecchia Onorata Società si trasformò in una “pura e semplice associazione a delinquere”[xvi].
Questa parte della tesi proposta da Martino è completamente ipotetica e non è sostenuta da alcuna prova. Con maggiore dettaglio, avvantaggiandoci delle recenti ricerche storiche, ci è possibile allora ribadire quanto segue:
- Non esiste nessuna prova di qualsiasi tipo che dimostri l’esistenza di una buona e vecchia Onorata Società che si possa intendere come antesignana di ciò che noi conosciamo come ’ndrangheta.
- L’Onorata società, così come la conosciamo dai processi celebrati all’incirca tra il 1880 e il 1940, si dedicava principalmente alle attività tipiche del crimine organizzato: estorsione, furto, contrabbando, omicidi, violenza contro le persone e contro le proprietà, sfruttamento della prostituzione, infiltrazione nelle istituzioni con la volontà di corrompere, e così via. Molti affiliati, particolarmente negli ultimi venti anni dell’800, erano già stati in prigione, dove erano rimasti coinvolti in attività di tipo mafioso. Perciò, contrariamente a ciò che Martino immagina, non c’è stata alcuna “criminalizzazione” della società tradizionale da parte di uno Stato italiano non in grado di comprenderla.
- Tutti gli storici moderni sono d’accordo nel ritenere che, mentre la ’ndrangheta ha subito alcuni cambiamenti nel corso della sua storia, la narrazione secondo la quale la ’ndrangheta, a un certo punto degli anni ‘60, si sia trasformata da qualcosa di “tradizionale” e positivo in una “pura e semplice associazione per delinquere” o in una forma di gangsterismo è, nella migliore delle ipotesi, decisamente semplicistica.
- La ’ndrangheta come fratellanza criminale esisteva, ed era molto ben documentata in un gran numero di processi frequentemente istruiti sulla base di fonti interne, già prima che la parola ’ndrangheta venisse utilizzata per identificarla.
- Dal grande numero di testimonianze storiche disponibili non è ancora emersa alcuna prova che suggerisca che l’equivalenza semantica tra ’ndrangheta e mafia risalga a prima degli anni ‘20.
- La storia della ’ndrangheta e la storia della parola ’ndrangheta sono due cose differenti. Contrariamente a quanto si potrebbe supporre, l’etimologia della parola ’ndrangheta non ci racconta necessariamente nulla sulle origini dell’associazione criminale che oggi è conosciuta in tutto il mondo con questo nome. Ciò che sappiamo della storia dell’organizzazione criminale ’ndrangheta suggerisce, contrariamente a ciò che Martino sostiene, che Rohlfs potrebbe avere ragione: sono stati i criminali ad appropriarsi a proprio uso e consumo del termine ’ndrangheta che aveva un’accezione positiva, e lo hanno fatto solo negli anni successivi alla Grande Guerra. Se le cose sono veramente andate così, allora non è difficile immaginare il motivo per cui il nuovo nome sia risultato allettante per i mafiosi: esso riveste con un’aura di nobiltà le loro attività predatorie e violente. Possiamo anche ipotizzare che le origini greche del termine fossero determinanti per la sua adozione come nome per l’intera società, in quanto rispecchierebbero, all’interno della stessa cultura criminale, il prestigio della fratellanza della Locride quale depositaria dell’autorità per le questioni relative ai rituali e alle procedure della ’ndrangheta. Perciò, mentre da un lato le fonti documentarie disponibili non ci consentono di capire perché questo nuovo nome abbia fatto la sua prima comparsa proprio negli anni ‘20, dall’altro costituiscono una prova sufficiente per sostenere la tesi secondo la quale il nome ’ndrangheta, piuttosto che dimostrare che la mafia calabrese sia un prodotto della cultura popolare calabrese come crede Martino, rappresenti invece una testimonianza del modo in cui le organizzazioni mafiose si appropriano degli elementi della cultura circostante per rafforzare il proprio spirito di corpo e pertanto il proprio potere criminale.
John Dickie
[i] Archivio di Stato di Messina, Corte di Assise di Reggio Calabria, Processo Surace Pasquale + 84, 1931, b. 308. Questo documento si trova tra molti altri analizzati da Fabio Truzzolillo, in una notevole tesi la cui pubblicazione è da tempo attesa: Università di Pisa, Scuola di Dottorato in Storia, Orientalistica e Storia delle Arti XXVI ciclo. Curriculum: Storia Contemporanea, Fascismo e criminalità organizzata in Calabria, 2013. L’intero statuto è riprodotto in un’appendice della tesi.
[ii] Si veda, tra gli altri, il resoconto in J. Dickie, Onorate società. L’ascesa della mafia, della camorra e della ’ndrangheta, Laterza, Roma-Bari, 2014, p. 138.
[iii] Cfr. S. Lupo, Quando la mafia trovò l’America. Storia di un intreccio intercontinentale, 1888-2008, Einaudi, Torino, 2008.
[iv] Cfr. Truzzolillo, Fascismo e criminalità organizzata, p. 83 (pp.77-85).
[v] Archivio di Stato di Catanzaro, Corte di Appello di Catanzaro, Sent. 2-5-1929 Palermo Rinaldo + 48, vol. 507.
[vi] La storia delle origini della ’ndrangheta è analizzata nel mio Onorate Società.
[vii] F. Truzzolillo, «Criminale» e «Gran Criminale». La struttura unitaria e verticistica della ’ndrangheta delle origini, Meridiana, 77, 2013.
[viii] Dickie, Onorate società, p. 179.
[ix] J. Dickie, Mafia and Prostitution in Calabria, c.1880 – c.1940, Past & Present, 232, 1, 2016.
[x] Archivio di Stato di Messina, Corte di Assise di Reggio Calabria, Sentenza Cama Quinto + 23, 27 aprile 1934, b. 443, citato in Fabio Truzzolillo, Fascismo e criminalità organizzata in Calabria, 2013, cit.
[xi] J. Dickie, Mafia Republic. Cosa Nostra, camorra e ’ndrangheta dal 1946 a oggi, Laterza, Roma-Bari, 2013, p. 72-4.
[xii] P. Martino, ‘Storia della parola ‘Ndrànghita’, in AA.VV, Le ragioni della mafia, Jaca Book, Milano, 1983 (pubblicato per la prima volta nel 1978); P. Martino, ‘Per la storia della ‘Ndranghita’, Biblioteca di ricerche linguistiche e filologiche, 25.1, Dipartimento di Studi Glottoantropologici dell’Università di Roma «La Sapienza», Roma, 1988.
[xiii] Hoepli, Milan, 1932-39. Le definizioni citate da Martino si trovano in vol. II (1934), p. 86, riportate in Martino 1978, p. 12.
[xiv] Martino, 1988, p. 11.
[xv] E. Ciconte, ’ndrangheta dall’Unità a oggi, Laterza, Roma-Bari, 1992.
[xvi] Martino 1978, p. 138.
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