Carabinieri a Reggio Calabria
L’assalto alla stazione dei carabinieri di africo
Una relazione della Legione di Catanzaro della fine degli anni Quaranta riferisce al Comando Generale dell’Arma quanto a suo tempo comunicato al Comando Carabinieri dell’Italia Liberata, circa il singolare assalto portato a termine dalla popolazione di Africo contro quella Stazione Carabinieri.
Il documento introduceva che: fra la popolazione di pastori e boscaiuoli di Africo, comune segregato dal mondo per mancanza di strade, durante il 1943, si era andato creando uno stato di vivo malcontento a causa del disagio morale e materiale in cui essa viveva e per il completo abbandono in cui era stata lasciata, malgrado sia nota la improduttività di quei luoghi impervi e la necessità perciò di sopperire costantemente alle reali necessità di quegli abitanti[i].
Nel settembre 1943 il venir meno del rifornimento di viveri, che già lasciava a desiderare, aveva infatti provocato un grave stato di insofferenza degli abitanti, da cui trasse vantaggio il dottor Settimio Polito, medico condotto del luogo, definito quale «persona scaltra e influente, che sobillò la popolazione a insorgere, a dichiarare decadute le autorità locali e a nominare lui in loro vece».
Non a caso quest’ultimo, nei primi giorni dello stesso mese, venne acclamato sindaco di Africo. In seguito, la limitazione della libertà imposta dopo l’invasione e la propaganda portata avanti da elementi di partiti estremisti condussero in breve tempo a una manifesta avversione alle leggi e alla disciplina, fattore che, oltre a turbare la sicurezza pubblica, degenerò talvolta in vere e proprie manifestazioni di violenza, raramente denunciate dalle vittime.
In questo ambiente non era certamente semplice alle Autorità imporsi e garantire il rispetto della legge, dovendosi altresì misurare con gli orientamenti delle Autorità di occupazione, che presto furono chiariti tramite direttive che l’Arma stessa impartì ai propri Comandi.
La posizione raggiunta dal dottor Polito in paese era contrastata dall’arciprete del luogo, don Giovanni Stilo, il quale, mentre in un primo momento aveva favorito l’ascesa del medico di cui sembrava essere amico, adottò in seguito un atteggiamento tendente a limitarne l’ascendente in quella popolazione.
Don Stilo iniziò tale forma di contrasto dapprima in maniera sotterranea e silenziosa, per poi affrontare il dottor Polito a viso aperto, confronto che determinò negli animi degli abitanti di Africo sentimenti contrastanti, che intensificarono il grave stato di tensione a cui erano sottoposti. Questo stato di cose fu la causa dell’aggressione all’Arma di Africo, avvenuta il 20 gennaio 1944. Quel giorno il Comandante della Stazione, brigadiere Scuderi, incontrò due individui di Roccaforte del Greco, uno dei quali con un paio di scarpe militari in ottimo stato.
L’ingiustificato possesso di quelle scarpe e il sospetto che l’uomo fosse un militare sbandato indussero il brigadiere a procedere al suo fermo, in attesa di esperire le ulteriori indagini del caso.
Verso le ore 13:00 dello stesso giorno, si presentò alla Stazione un certo Maviglia Santoro, pregiudicato del luogo ed esponente del locale partito comunista, che invitò il Comandante della Stazione a rimettere in libertà il fermato. Questi infatti, a dire di Maviglia, si era recato ad Africo per recapitare alcune notizie politiche che gli erano state inviate da Roccaforte e riguardanti la costituzione della Camera del Lavoro.
Il brigadiere non aderì alla richiesta di Maviglia, ritenendo che il motivo addotto non era sufficiente a fugare i dubbi in merito alla presenza ad Africo dello sconosciuto, ma gli chiese maggiori notizie circa le sue affermazioni sulla formazione della Camera del Lavoro; notando che Maviglia si era irrigidito a tale richiesta, dimostrando anche una certa insofferenza, lo invitò ad andarsene. Maviglia, nell’allontanarsi, proferì parole minacciose nei confronti del brigadiere, guadagnando la fuga prima che questi potesse raggiungerlo.
Davanti alla caserma vi era l’arciprete Stilo in compagnia del segretario comunale e di tale Mangeruca del luogo, con i quali il brigadiere s’intrattenne qualche minuto, per poi rientrare con essi in caserma.
Un’ora dopo si udirono forti detonazioni provenienti dalla parte superiore dello stabile e non fu difficile capire che si trattava di bombe a mano. Tutti cercarono di ripararsi alla meglio, mentre i militari si affrettarono a prendere le armi, alcuni anche rischiando la vita per recuperarle nelle camerate site al piano superiore della caserma.
Un assembramento di circa 500 persone era concentrato sul pendio dell’altura che sovrastava la caserma e, da quella posizione dominante, lanciava bombe a mano e sassi di notevole dimensione, tanto da sfondare completamente il tetto e i soffitti di parecchi vani. Altre persone si erano frattanto posizionate nella parte anteriore della caserma, tirando qualche colpo di fucile e, con tutta probabilità, anche qualche raffica di arma automatica, in direzione delle finestre del piano terra, dove si trovavano i militari e i tre civili. Si levarono le urla della popolazione che inveiva contro l’Arma «che non aveva provveduto ai bisogni alimentari della popolazione».
All’interno della caserma vi erano il brigadiere e quattro carabinieri che, nell’intento di far desistere i malintenzionati, spararono a loro volta vari colpi di moschetto in direzione del tetto; altri colpi partirono dalle finestre della facciata anteriore, per impedire a coloro che si erano lì riuniti di penetrare all’interno dell’edificio. I tumultuanti, tuttavia, si erano già spostati da quella posizione, collocandosi nelle zone laterali così da non essere colpiti. L’azione di rivolta si protrasse per circa mezz’ora e, cessata l’aggressione armata, i facinorosi si riunirono di fronte alla caserma.
Frattanto l’arciprete Stilo propose al brigadiere di consentirgli di mediare con la popolazione, così da sondarne lo stato d’animo; s’intrattenne quindi qualche minuto con i rivoltosi e, al suo rientro in caserma, riferì al brigadiere che questi avevano espresso il desiderio che tutti i componenti della Stazione si allontanassero da Africo.
Nonostante l’arciprete tentasse di convincere il brigadiere che tale esito avrebbe evitato più gravi conseguenze, questi non accettò di ottemperare alla richiesta. La folla continuava a essere in fermento e l’arciprete uscì nuovamente parlando con alcune persone per qualche minuto e rientrò riportando la controfferta dei rivoltosi: i militari dovevano lasciare le armi e abbandonare la caserma.
Per la terza volta l’arciprete tornò a parlare con i dimostranti e poi in caserma riferendo che i militari, pur potendo trattenere le armi, avrebbero comunque dovuto allontanarsi: in caso contrario i facinorosi avrebbero anche potuto far saltare lo stabile.
L’arciprete si offerse di accompagnare egli stesso i militari per un tratto di strada, così da garantirne l’incolumità; avrebbe inoltre preso in consegna la chiave della caserma.
Il brigadiere decise di chiedere rinforzi alla Stazione di Bova Superiore ma, ritenendo poco prudente mandare due soli militari sino a Bova, si determinò a recarvisi egli stesso con i quattro militari della Stazione, così da rientrare ad Africo con i necessari rinforzi.
Alle ore 18:00 circa il brigadiere, dopo aver consegnato le chiavi della caserma al segretario comunicale Mollica, si avviò con i suoi uomini alla volta di Bova Superiore, giungendovi a notte inoltrata; frattanto un buon numero di dimostranti era penetrato in Municipio, ottenendo la chiave da uno degli impiegati.
Giunti a Bova Superiore, il brigadiere constatò che non vi erano i militari necessari per il rinforzo: non restava che ricorrere all’ausilio dell’Arma di Melito Porto Salvo.
La notte sul 21 gennaio 1944 la Compagnia di Reggio Calabria poté essere informata dell’accaduto.
Il Comandante di Compagnia, a seguito degli ordini ricevuti dal Comandante di quel Gruppo e previ accordi con il Comando della 211a Divisione Costiera, partì quella stessa notte dalla città con un nutrito nucleo di militari, giungendo ad Africo il giorno stesso.
I militari di rinforzo riaprirono la Stazione e constatarono che la caserma era stata saccheggiata, mentre gli uomini del paese si erano dati alla latitanza nelle montagne circostanti per timore di essere arrestati. Furono identificati 66 responsabili della rivolta, tra cui i promotori, e ripristinato l’ordine nel paese.
Di quanto accaduto venne informato il capitano inglese Hobbs, allora capo della P.S. nella provincia di Reggio Calabria, il quale, uniformandosi al desiderio che gli era stato espresso dal Prefetto Priolo, di area socialista, successivamente deputato alla Costituente e poi Senatore di diritto, determinò il non doversi procedere nei confronti dei rivoltosi purché la popolazione s’impegnasse a: restituire il materiale sottratto all’Arma, manifestare pubblicamente il proprio attaccamento all’Arma, riparare i danni arrecati al fabbricato della caserma[ii] e a consegnare le armi militari di cui si era appropriata.
Il 5 marzo 1944 il capitano Hobbs, con il Comandante interinale del Gruppo di Reggio Calabria, si recò ad Africo a verificare di persona se quella popolazione avesse mantenuto le condizioni che aveva posto. L’ufficiale inglese constatò che, in linea di massima, gli impegni erano stati rispettati e confermò alla popolazione, che si era riunita «per manifestare i suoi sentimenti di stima e attaccamento all’Arma», la decisione presa dalle Autorità di occupazione di non procedere a carico dei responsabili dei fatti occorsi il 20 gennaio, tanto più che da accertamenti dallo stesso compiuti era risultato che la manifestazione non aveva avuto carattere contrario all’Arma come istituzione, ma era diretta contro le Autorità locali che la popolazione riteneva responsabili di essersi disinteressate dell’approvvigionamento.
La conclusione a cui arrivò l’Arma, nella sua relazione stilata anni dopo, fu che «considerato il tempo trascorso, che la popolazione di Africo stima l’Arma, non è conveniente ritornare ora su una decisione presa a suo tempo e perciò non ritiene il caso di promuovere ora per allora un procedimento penale a carico dei sobillatori e partecipanti alla rivolta a suo tempo identificati»[iii].
L’Arma non era stata altrettanto clemente con il brigadiere Scuderi, quale Comandante della Stazione di Africo, «che avrebbe dovuto difendere a oltranza la caserma» e che, per tale regione, lo deferì alla commissione di disciplina: per la sua condotta il brigadiere venne retrocesso del grado con Decreto del Ministero della Difesa del 19 settembre 1946.
La necessità di tornare in argomento su quegli avvenimenti a distanza di anni era scaturita da un promemoria riservato diretto, nel maggio 1948, al Comandante Generale dell’Arma dal Capo zona della Democrazia Cristiana, nel quale si rilevava che:
Il 20 gennaio 1944 – in Africo – alcuni sconsigliati – senza motivo alcuno – distruggevano con bombe a mano e con tiri di fucili mitragliatrici il nuovo e bello edificio della caserma dei carabinieri di proprietà dello Stato. Non è stato ancora possibile indurre chi di ragione di riesumare il processo che, in atto, dorme negli archivi dell’Autorità giudiziaria. A suo tempo, il fattaccio, ha destato profonda impressione in provincia pel modo brutale della ingiustificata aggressione.
Pel decoro dell’Arma nobilissima prego V.S. voler compiacersi fare riesaminare la triste faccenda onde qualche esempio venga dato e i colpevoli vengano dalla legge puniti[iv].
Per l’Arma, tuttavia, quella vicenda si era già chiusa da tempo.
Una nota del Gruppo dei Carabinieri Reali di Reggio Calabria, inviata all’Amministrazione Provinciale di Reggio Calabria il 28 marzo 1946, in merito alle riparazioni alla caserma dell’Arma di Africo, diede una diversa chiave di lettura all’aggressione, non meno interessante, seppure mossa dall’evidente intento di recuperare i fondi necessari:
L’assalto alla caserma di Africo, avvenuto nel pomeriggio del 20 gennaio 1944, ad opera di una turba di popolo, fomentata da elementi facinorosi e pregiudicati del luogo, che produsse gravi danni allo stabile, tali da renderlo inabitabile, trae origine dalle conseguenze della guerra e va considerato un vero e proprio atto di guerriglia, connesso alle operazioni belliche. Infatti, i rivoltosi nell’operare l’assalto fecero uso, in prevalenza, di armi da guerra, automatiche a ripetizione e di altri ordigni da guerra, come bombe a mano, delle quali ultime fecero largo impiego.
Tale aggressione è altresì da considerare un vero e proprio atto di guerra, o di guerriglia connessa alla guerra, perché è avvenuto a distanza di poco più di tre mesi dagli eventi bellici che imperversarono su questo litorale, sull’immediato retroterra e che culminarono nella occupazione alleata del settembre 1943. In seguito a tale occupazione gli eserciti nazi-fascisti, disfatti e sbandati, abbandonarono in diverse località ingenti quantitativi di armi e munizioni di ogni specie, che in gran parte furono raccolte dalle popolazioni, le quali non mancarono di adoperarle, specie in occasione di tumulti e rivolte armate in dispregio alle leggi civili e alle autorità, anche esse sbandate e raccogliticce per il cambio di regime verificatosi.
Né si può tener conto che nel breve lasso di tempo sopra cennato, in cui il deprecato assalto della caserma dell’Arma di Africo ebbe luogo, gli animi, così profondamente scossi, si fossero placati e i profondi solchi scavati si fossero ricolmi.
Considerato dunque, che in quell’epoca le popolazioni erano pervase da atti vandalici e non obbedivano alle autorità che andavano ricostituendosi; tenuto conto anche della natura, della provenienza delle armi e degli ordigni di guerra adoperati dagli assalitori, non vi è dubbio che gli avvenimenti stessi si devono attribuire a veri e propri atti di guerriglia, alla quale infatti si diede la massa assalitrice, sbandandosi nelle campagne subito dopo l’assalto alla caserma. Tale guerriglia va connessa allo stato di guerra, che in quell’epoca era ancora latente in questo territorio, governato da leggi di guerra. Nel senso dovrebbe, pertanto, essere affrontato e risolto l’annoso problema delle riparazioni arrecate allo stabile della caserma di Africo[v].
[i] ASUSCC, Carteggio della Legione Carabinieri Reali di Catanzaro, Faldone n. 11, Fascicolo: Aggressione del 1944 nella Caserma di Africo.
[i] In realtà la caserma di Africo, che nell’assalto aveva subito la totale distruzione del manto di copertura, delle grosse armature e di alcune capriate, nonché la demolizione di molti soffitti, la distruzione di aperture, di vetri a molto altro ancora, rimase in pessimo stato. Il 10 ottobre 1945, per riparare i danni subiti, l’Ufficio Tecnico Provinciale redasse una perizia, che dopo un notevole lasso di tempo dovuto alla riluttanza delle imprese di concorrere all’asta per la difficoltà di accedere ad Africo, venne finalmente appaltata nel 1948. Le somme previste dalla perizia si rivelarono tuttavia insufficienti a completare il risanamento della struttura. Nel giugno del 1949 l’Amministrazione Provinciale di Reggio Calabria, d’intesa con il Genio Civile, redasse una perizia suppletiva dell’importo di lire 1.765.400 per la sistemazione del fabbricato, senonché il Provveditorato rappresentò di poter concorrere alla spesa soltanto con la somma di 140.000 lire impegnate per imprevisti, mentre, nel maggio del 1948, aveva promesso un finanziamento pari a un milione e 400 mila lire, come risultava dalla deliberazione del Commissario Prefettizio del tempo, datata 15 gennaio 1948. La nota dell’Amministrazione Provinciale di Reggio Calabria del 5 marzo 1950, diretta al Prefetto e al Commissario Prefettizio di Africo, informava tali autorità che, nonostante le premure esercitate presso il Provveditorato Regionale di Catanzaro e presso il Ministero dei Lavori Pubblici, questi ultimi non avevano fornito alcuna risposta. I Carabinieri, come risulta da una nota del Commissario Prefettizio di Africo, Carmelo Morabito, erano frattanto accasermati, sin dal febbraio 1944, nelle aule scolastiche del paese, senza alcun adattamento, senza cucina, senza camere di sicurezza; «la scuola, incontro, ha sede in bugigatoli che fanno disertare la popolazione scolastica per la non accoglienza dei locali e il resto immaginabile in Africo ove l’edilizia è un nome sconosciuto». La vicenda suscitò notevole clamore e dal Senato della Repubblica, a firma di Eugenio Musolino, pervenne al Presidente della Deputazione Provinciale una missiva: «Il Comune di Africo, che Lei conosce così bisognoso di opere costruttive, ha, tra l’altro, mancanza di scuole, perché l’edifizio scolastico è occupato dai Carabinieri, i quali non possono utilizzare la Caserma, oggi in via di costruzione. La mia preghiera, già espressa al tecnico della Provincia sig. Ing. Cadile, è rivolta a Lei per evitare un fatto, che, dal punto di vista sociale, è grave e cioè che la Scuola ceda alla Caserma! Io penso che codesto Consesso non possa, senza venire meno a un elementare principio di progresso, tollerare che il Comune di Africo sia privo delle scuole, ove l’analfabetismo si può dire che raggiunga oltre l’80%». Cfr. ASRC, Amministrazione Provinciale, Busta n. 366, Fascicolo n. 2: Danni di guerra, Caserma dei CC di Africo.
[i] AS USCC, Carteggio della Legione Carabinieri Reali di Catanzaro, Faldone n. 11, Fascicolo: Aggressione del 1944 nella Caserma di Africo.
[i] Ibidem.
[i]SRC, Amministrazione Provinciale, B. 366, Fascicolo n. 2: Danni di guerra, Caserma dei CC di Africo.
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